Onde del caffè: come il consumismo ci ha insegnato a bere bene
22/07/2020
Sulle origini del caffé e le piantagioni etiopi si sono consumati fiumi d’inchiostro, per non parlare della tradizione tutta italiana legata al suo consumo. Se oggi annusiamo mono-origine estratti con i metodi più vari e parliamo di Specialy Coffee, però, è perché Oltreoceano una “linea del tempo” dalle tappe insospettabili ci ha portati fin qui, passando per caffè solubile e catene di caffetterie. Si parla di onde del caffè e, anche questa volta, noi di Dissapore non ci siamo inventati niente.
Quindi, se dobbiamo ringraziare Starbucks per la diffusione della cultura della drupa, non prendetevela con noi. Fu Timothy Castle, pioniere dello Specialty Coffee, a parlare per primo di “onde”, scegliendo questo termine per descrivere la crescita culturale del caffè artigianale in nord America iniziata a partire dai primi del 1900. Da allora, di onde, ne sono seguite altre due e entrambe hanno avuto un impatto significativo su mercato, filiera e approccio al consumo alla bevanda.
Oggi parliamo di coffee waves, italianizzato in onde del caffè, e di come quella che sta lambendo le nostre labbra oggi presenti similitudini con altri mondi craft.
Dicevamo che tutto è iniziato nei primi anni del secolo scorso. La prima onda ha portato il caffè nelle case delle famiglie americane. Sono gli anni del caffè istantaneo pensato per il consumo domestico. Un rito tipicamente americano, quello della tazza servita nella tavola calda con due zollette di zucchero e il latte. Non vi è alcuna ricerca, nessun vezzo produttivo, nessuna attenzione alla filiera o alla sostenibilità. Il caffè è una commodity, un prodotto industriale totalmente scollegato al paese d’origine.
Sono gli anni ’60 a spostare il consumo di caffè fuori dalle mura domestiche. Cresce l’interesse legato alle caffetterie parallelamente ad un maggior benessere economico del Paese. È proprio in quel periodo che il nostro espresso inizia a farsi strada negli Stati Uniti. Di lì a poco sarebbe nato Starbucks, attore chiave in quella che viene definita la seconda onda. Cambiano le modalità di consumo e il contesto, la bevanda diventa più creativa, l’atmosfera invitante e il barista ammiccante.
Sono gli anni in cui si inizia a parlare di peculiarità sensoriali e paesi d’origine (il terroir, tanto per usare un termine enoico inflazionato) ma tendenzialmente di quel chicco si continua a sapere ancora poco. Tostature scure dominano la scena e la qualità in tazza rimane pressoché un miraggio.
Dobbiamo aspettare i primi anni ’70 per scorgere i segnali di quello che sarebbe stato un cambio significativo di approccio alla bevanda. La terza onda è artigianale, local, concentrata su una maggiore qualità in tazza.
La nascita della Specialty Coffee Association nell’82 ha un ruolo chiave in questo processo culturale, ed è di fatto il fulcro su cui si snoda l’onda che ancora oggi stiamo cavalcando. Chicchi selezionatissimi diventando i protagonisti di una nuova ritualità legata al consumo del caffè, talvolta hipster ed elitario, sensorialmente riformista.
La third wave è quella in cui tutti gli attori della filiera iniziano a prendere maggiore confidenza con la drupa e le innumerevoli variabili per processarla, quella che seppur in un segmento di nicchia ridisegna dettami e rivoluziona modalità di consumo. Virtuosismi in tazza che nell’ultimo decennio hanno puntato sempre più i riflettori sui paesi d’origine, e concetti come etica al lavoro e sostenibilità sono diventati un tema ricorrente.
Ed proprio nelle pieghe di questa onda che alcuni osservatori iniziano a scorgerne una quarta. Le nuove consapevolezze e competenze acquisite hanno permesso ai roaster di lavorare in sinergia con gli agricoltori, e così- analogamente ad altri mondi- si sono esplorate le possibili variabili in fatto di fermentazioni, macerazioni carboniche, essicazioni. Alcuni esempi?
È il 2015 quando Saša Šestić vince il World Barista Championship a Seattle. Le drupe che sbaragliano la concorrenza sono processate utilizzando una tecnica “presa in prestito dal mondo del vino”, quella della macerazione carbonica. Ambiente saturo di CO2 che imprime note fruttate anche nel 100% fine Robusta di Paolo Scimone.